“Dall’abolizione della pena di morte alla lotta ai linguaggi d’odio: la Toscana terra di diritti”
Questo il tema del 2021 per celebrare i diritti umani inalienabili a 235 anni dal 30 novembre 1786, quando, per volere dell’allora Granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, la Toscana fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte e la tortura con la Riforma della legislazione criminale.
Ciò avveniva nell’ambito del vento illuministico del rinnovamento, che aveva fatto nascere tra gli intellettuali, ma anche tra alcuni sovrani, l’esigenza di modificare la vita pubblica e di mettere in atto riforme che sapessero accogliere i nuovi modi di pensare e sostenessero i moderni sistemi economici e i ceti sociali emergenti: occorreva bandire l’arbitrio e il privilegio, portare luce alle menti umane, liberarle dalle tenebre del passato e dall’ignoranza, aprirsi al progresso. Alcuni prìncipi illuminati si ispirarono a tutto ciò onde mantenere ed allargare la base del loro potere, pur rimanendo sostanzialmente uomini di Ancien Régime. Ciò diede luogo ad esiti molto diversi nei diversi stati ove si realizzò la collaborazione tra sovrani e philosophes, talora generando significativi cambiamenti, più spesso apportando solo una apparente “riverniciatina” a secolari privilegi e strutture che restarono intatti. Troppo poco per le élites intellettuali riformatrici che divennero in seguito, non casualmente, rivoluzionarie.
Tra i paesi dove però i programmi di riforma si realizzarono maggiormente vi fu la Toscana leopoldina, che si aprì agli economisti dell’Accademia dei Georgofili e ai principi del liberismo favorendo, ad esempio, un maggiore frazionamento della terra e una più facile circolazione di capitali, nonché la piccola proprietà contadina (anche se la mezzadria non fu in sostanza intaccata) e le bonifiche. I ministri e i funzionari del Granducato raccoglievano il mondo dell’Università di Pisa dove assai forte era la tradizione galileiana, una tradizione che esercitava la sua influenza anche nel campo degli studi storici e giuridici. Inoltre, la cultura delle città toscane come Pisa, Firenze e Livorno era sempre stata aperta alle influenze esterne e alle idee provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Olanda. L’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert ebbe due edizioni in Toscana: una iniziò a Lucca nel 1758 e una a Livorno nel 1770 (quest’ultima sostenuta dallo stesso Granduca). Gli studiosi ricordano altresì Pietro Leopoldo come esponente di un cattolicesimo aperto all’influenza dei Lumi. Con l’appoggio di alcuni esponenti del clero (alcuni dei quali di formazione giansenista), egli si fece sostenitore di una riforma ecclesiastica gestita dal basso che avrebbe dovuto condurre alla formazione di una Chiesa autonoma dalla Curia romana. Era presente l’aspirazione ad un cristianesimo interiorizzato, che ricostruisse nelle parrocchie il legame comunitario e che trovasse la sua espressione nei sinodi e culminasse in un concilio. Il tentativo fallì per l’opposizione delle plebi rurali legate alla tradizione e soprattutto per l’ostilità della maggioranza dei vescovi. Ma il “principe filosofo” toscano non fallì invece per quanto riguarda l’adesione ai principi descritti da Cesare Beccaria nel famoso testo del 1764, Dei delitti e delle pene.
L’opera dell’illuminista lombardo era frutto di numerosi ed accesi dibattiti in seno all’Accademia dei Pugni di Milano (non a caso chiamata “dei Pugni”!), quella da cui nacque la rivista Il caffè e fra i cui soci figuravano, oltre a Beccaria, anche i fratelli Verri. Il saggio di Beccaria otteneva un successo trionfale oltralpe. Tradotto in molte lingue, divenne di fatto il diritto penale dell’Illuminismo stesso.
Se le leggi sono alla base del patto sociale, le pene sono necessarie per ristabilire e rafforzare il patto stesso, per conservare la “salute pubblica” nel caso questa sia turbata da un reato. La pena deve essere commisurata al danno che ha comportato per la società. Tuttavia deve avere anche e soprattutto una funzione preventiva, cautelativa e riabilitativa nei confronti del colpevole, una volta accertata la sua responsabilità: la pena deve cioè “impedire al reo di far nuovi danni e distogliere gli altri dal farne di uguali”. Non è necessario che sia terribile, è necessario invece che sia certa e infallibile: “la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro castigo più terribile unito però alla speranza dell’impunità”.
In questo contesto non si ammettono dunque né la pena di morte né la tortura, che si configurano invece inutili e non necessarie.
La pena di morte è illegittima perché non permette la riabilitazione del condannato e perché non è neanche un deterrente per ulteriori possibili reati: “non è l’intensità della pena che fa il maggiore effetto sull’animo, ma la sua estensione nel tempo”.
Soprattutto nell’opera di Beccaria troviamo la giustificazione filosofica della non liceità da parte dello Stato di uccidere, poiché, ogni volta che lo Stato uccide, si macchia dello stesso delitto che vuol punire. Inoltre, dato che la compagine statale è costituita dall’insieme dei cittadini, noi tutti diventiamo assassini e con l’aggravante della premeditazione. Insomma i cittadini non possono delegare il potere di uccidere. La pena di morte si configura come la “guerra della nazione contro un cittadino”.
Anche la tortura è illegittima poiché esistono “robusti scellerati e deboli innocenti”. I primi resistendo al dolore non confessano, i secondi non resistendo al dolore confessano qualunque cosa: “è vano supporre che il dolore sia crogiuolo della verità”.
Tra le varie iniziative previste quest’anno per ricordare Pietro Leopoldo, Cesare Beccaria e i loro passi verso la conquista dei diritti fondamentali, si segnala nel pomeriggio del 30 il convegno fiorentino “La Toscana che non odia” (sul contrasto all’hate speech), durante il quale la Regione sottoscriverà, prima fra tutte in Italia, il manifesto per la comunicazione non ostile.