Il campanile di San Giuseppe e il bassorilievo di Serafino Beconi
Quando, l’11 settembre 1944, i reparti alleati del 39° Reggimento inglese, attraversato all’alba il canale della Bufalina, avanzando nella pineta lentamente a causa del pericolo delle mine, giunsero a Torre del Lago, trovarono il campanile della chiesa di San Giuseppe distrutto in un borgo semideserto.
I tedeschi in fuga avevano minato la chiesa, facendo saltare l’8 settembre, il campanile e parte dell’abside, lasciandosi alle spalle mesi di sofferenze e morti inflitte alla popolazione.
Nel 1983, sulla parete nord della chiesa, fu apposta l’opera di Serafino Beconi (1925-1997), inaugurata l’11 settembre, “Bassorilievo per la Liberazione”, che è una rappresentazione della storia attraversata dal paese nell’estate del ’44. Vi è raffigurato il calvario di una popolazione: lo sfollamento contro il pericolo dei bombardamenti; le fatiche della quotidiana ricerca di cibo, il rischio delle razzie di bestiame; una vita al riparo, una vita nascosta per renitenti e maschi adulti, per sfuggire ai rastrellamenti e alle deportazioni; la facilità con cui si muore e la semplicità con cui si è spesso precariamente sepolti.
Le paludi circostanti (il “padule”) diventarono in quei mesi il luogo di rifugio su cui imperversarono rastrellamenti e ricerche, condotte dall’esercito nazista con la violenza dei mitra e l’obiettivo della deportazione. Qui nacque anche una qualche forma di resistenza, con l’organizzazione di gruppi precariamente armati che cercarono il contatto con gli Alleati per sostenerne l’avanzata. Tra questi gruppi, quello di Silvio Orlandi, che poi confluirà nella formazione di Antonio Canova “Tigre”, un raggruppamento autonomo costituitosi negli ultimi giorni che fiancheggiò e sostenne le forze alleate nella liberazione di Viareggio.
Nell’opera di Serafino Beconi hanno rilievo centrale le figure di Velio Bini e Lelio Gori; le loro famiglie torrelaghesi erano sfollate e i due giovani rimasero casualmente coinvolti tra gli ostaggi uccisi nell’eccidio di Valpromaro (30 giugno).
Una formella riproduce anche la vicenda, trasfigurata, di Guido Francesconi, ucciso in padule, il 7 settembre, per aver reagito ai tedeschi.
Tra le vittime di Torre del Lago di quell’estate 1944 è da ricordare anche Ettore Tofanelli, catturato e avviato alla deportazione, poi ucciso nell’eccidio di San Quirico di Valleriana del 19 agosto.
TORRE DEL LAGO 1944
Bassorilievo per la Liberazione di Serafino Beconi
Prima fascia:
Velio Bini e Lelio Gori tra due formelle che evocano una “Famiglia”
Seconda fascia, da sinistra a destra:
un rapace, rifugio antiaereo, una lepre, un funerale (sopra), razzia del bestiame (sotto), bombardamento.
Terza fascia:
lo sfollamento, lucertola e rana, uccisione di Francesconi, i deportati, 12 agosto! Bruciano Sant’Anna (vista dal padule).
Quarta fascia:
la messa in padule, morte per shrapnel, dalle macerie del campanile verso la libertà, uccello e pesce di padule, l’arrivo degli americani
Testimonianza di Serafino Beconi sulla morte di Guido Francesconi
Riproduciamo le parole con cui Beconi ricordò l’uccisione di Francesconi in un suo scritto pubblicato postumo da Stefano Bucciarelli su «Sinopia», anno IX, n. 34, giugno 1999:
La gente sfollata nel padule fra i canali “Le 15” e “Le 20” era più che mai all’erta. Da giorni i guastatori tedeschi erano all’opera sulla ferrovia Pisa Viareggio e le esplosioni del tritolo ritmavano il trascorrere della giornata e non alti nel cielo esplodevano i fiori mortali degli “shrapnell” che seminavano una pioggia di schegge sugli esili rifugi fatti coi falaschi, i biodoli, le cannelle.
Il settembre era cominciato assolato e torrido come tutta l’estate, ma si avvertiva istintivamente che la fine di quell’attesa stava per giungere.
Era il 7 settembre, ore 13 circa; si avverte un serpeggiare di movimenti inconsulti tra la gente: – I tedeschi!
Gli uomini erano già fuggiti tra i falaschi folti dove i miasmi metaniferi dovuti al caldo ti prendevano alla gola, dove le sabbie mobili erano in agguato e dove poteva accadere di morire dissanguati nella solitudine per una sventagliata di mitra alla cieca come accadde all’amico mio Giuseppe Gori. Ci provai un giorno anch’io per sfuggire il rastrellamento ma poi rimediai costruendo una stretta doppia parete alla capanna di falaschi dove si era rifugiata la mia famiglia insieme ad altri parenti. Un sistema che ci permetteva di stazionare nella capanna fino all’ultimo e quando “loro” irrompevano trovavano il vuoto e qualche donna anziana.
Quel pomeriggio piombarono tra la gente due SS, un maresciallo col braccio destro fasciato e tenuto al collo con una pezzuola e un caporale che imbracciava un mitra. Si sentì che davano ordini. La voce corse subito fino a noi e andò oltre: dovevamo sfollare dal padule, andare oltre Viareggio; lì dei camion ci avrebbero trasferiti (trasportati) ad Aulla!
A non più di quaranta metri dalla nostra capanna, vedemmo, stando nascosti, ergersi la figura alta, magra, tutta appoggiata sulla gamba destra perché zoppo, di Guido. I suoi capelli bianchi, la pezzuola scura al collo, il silenzio, l’aria ferma, il sole. Guardò fisso il maresciallo e disse chiaro e forte: – Basta, basta! Non possiamo muoverci, il mio nipotino è ammalato e piange. Andate via voi, lasciateci in pace!
E continuò a mormorare parole, ma non l’udimmo più perché i nostri occhi impietriti seguivano il tramestìo che il graduato faceva col braccio sinistro per aprire la fondina che teneva dalla parte destra. Estrasse la pistola e gliela puntò alla testa, così, da vicino. Tra la canna dell’arma e il viso di Guido forse un metro appena. Un colpo e Guido stramazzò sul poggiolo dove era. Certamente che i miei diciannove anni mi fecero scattare come un cane rabbioso, ma mi trattennero tutti quelli della capanna. Erano due mesi che ero riuscito a rientrare a Torre del Lago, dopo una fuga rocambolesca da un campo di disciplina tedesco laggiù tra i monti gelati della Carnia. Ce n’era del rancore, il cuore ne era ingolfato. Guido era stato un amico confidente anche se molto più anziano di me, quando renitente alla leva, ricercato dai carabinieri, me ne stavo nascosto di giorno alla vista di tutti. Ma la notte Guido mi faceva compagnia e mi raccontava della sua vita sofferta e di lui mi fidavo.
I tedeschi se ne andarono; la gente si dispose a partire coi fagotti; dalla giugulare di Guido il sangue fiottava coi ritmi del cuore. Fu aperto un ombrello nero perché facesse ombra alla testa e attesero che il sangue fosse sgorgato tutto.
La notte il campanile della Chiesa saltò in aria, i tedeschi si erano ritirati.
P.S. Ecco perché nella formella centrale “Le persecuzioni” ho “rammentato” Guido Francesconi, col drappo della Libertà.
Ottobre 1983